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Sardegna: cosa resta dopo l’emergenza?

Svuotare cantine, cercare idrovore, allestire una cucina da campo e sfornare più di 600 pasti al giorno per due settimane, accogliere nella sede dell'associazione la guardia medica e le persone rimaste senza casa, andare nei negozi per cercare di salvare ciò che l'acqua non ha toccato. Ma anche ritrovarsi a gestire un tiralatte, una pelliccia, un costume di carnevale, una scopa usata, vari costumi da mare, un pacco di vermicelli, una vecchia cazzuola, una camicia da notte con il pizzo.

Finché i riflettori sono puntati sull'emergenza, anche queste sono le donazioni che arrivano alle associazioni di volontariato. Queste sono le donazioni arrivate nelle pubbliche assistenze sarde di Anpas. Succede sempre, all'indomani di un evento come quello che il mese scorso ha colpito tante comunità della Sardegna: la notizia decreta l'emergenza, le immagini delle inondazioni generano la commozione che a sua volta crea ondate di solidarietà verso le comunità  colpite, portando aiuti efficaci e conforto vero o provocando l'imbarazzo di chi deve gestire  donazioni che sanno poco di generosità e compassione (nel senso di ‘cum-passione’, con la stessa passione). Poi si abbassano le luci, finiscono le donazioni e inizia l'urgenza di non restare isolati, almeno non più di quanto lo erano i sardi prima dell'alluvione.

Ciò che hanno dimostrato le varie emergenze causate da terremoti o alluvioni è che se ne può evitare il ripetersi attraverso la diffusione della cultura (in questo caso la cultura di protezione civile) per la costruzione di una memoria condivisa a livello nazionale al fine di non isolare le comunità colpite: «Non esiste un vero responsabile nell'emergenza maltempo in Sardegna: bisogna fare un cambio culturale», ha detto Carmine Lizza, geologo e responsabile  nazionale della Protezione Civile Anpas. «Dobbiamo rendere diffuse e popolari le norme di autoprotezione: non basta semplicemente avere un piano di protezione civile che indica quali sono le aree inondabili, bisogna piuttosto che queste pratiche diventino patrimonio comune di tutti i cittadini».

anpasDurante l'emergenza però sono stati anche creati ponti, nuovi canali nuovi di comunicazione civica (e non più dal basso) per coordinare i soccorsi (come la crowdmap Sardos https://sardsos.crowdmap.com/). Ma tante sono state le dimostrazioni di vicinanza che arrivavano dalla penisola: sui vari social network si sono susseguiti, nei giorni, le immagini dei volontari Anpas di tutta Italia che inviavano il loro #ajòSardegna ai volontari sardi. Poi, proprio pochi giorni fa, il 10 dicembre, da San Donnino (Fi), è partito un gruppo di volontari della Fratellanza Popolare a portare a Olbia i risultati della raccolta fatta nella comunità di Campi Bisenzio. Storie che raccontano che il volontariato non è solo azione immediata, ma un processo di mantenimento vivo della memoria di eventi recenti per non farli dimenticare.

Ora però non possiamo dimenticare ciò che è stato e soprattutto non possiamo dimenticarele comunità dell'isola che in questi giorni stanno ricostruendo. Possiamo evitare che restino isolate facendoci carico, da cittadini di mantenere il ponte costruito nell'emergenza, di partecipare alla revisione o alla scrittura dei piani di protezione civile e alla richiesta una pianificazione per la messa in sicurezza del territorio, di tutto il territorio nazionale. O anche semplicemente di andare a chiedere «come state?» alle persone che vivono nelle comunità colpite per poi raccontare ciò che ci hanno detto. Perché, come ha spiegato Moni Ovadia, parlando del terremoto a L'Aquila, (guarda il video) «Non possiamo risarcire il passato se non raccontandolo perché non cada nell'oblìo».
 

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