In che modo il volontariato può combattere il fenomeno dei Neet e rappresentare per giovani e giovanissimi un’opportunità di partecipazione, formazione e crescita personale? Come le associazioni possono promuovere l’attivismo giovanile e interagire con il mondo della scuola diventando protagonisti, ad esempio, dell’alternanza scuola-lavoro? Queste le domande al centro della ricerca “Capire il cambiamento. Giovani e partecipazione” promossa e pubblicata da Cesvot nella collana “I Quaderni” e realizzata da Andrea Salvini e Irene Psaroudakis dell’Università di Pisa.
La ricerca, presentata lo scorso 20 ottobre in occasione del convegno “Giovani in transito. Le nuove frontiere del volontariato giovanile”, nasce all'interno del progetto “Co.Genera. Connessioni Generative”, promosso da Giovanisì e gestito da Cesvot all’interno di un accordo di collaborazione tra Regione Toscana e Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale.
Contrastare il fenomeno dei cosiddetti Neet, ovvero i giovani tra 15 e 29 anni che non vanno né a scuola né all’università, non lavorano e non frequentano corsi di formazione, rappresenta una delle grandi sfide del mondo della scuola e del lavoro ma anche del volontariato. In Italia i Neet sono 2.214.000 e in Toscana ben 89mila. Un numero che tende ad aumentare di anno in anno e che è strettamente connesso al disagio scolastico e alla precarietà professionale.
Tuttavia i dati Istat sulla coesione sociale ci dicono che nel nostro Paese la propensione al volontariato per fasce di età è andata gradualmente incrementandosi, registrando un aumento del 40% dal 1993 al 2016 nei giovani tra i 14 e i 17 anni, del 44% nella fascia di età tra i 18 e i 19 anni, e del 37% per i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni di età.
Questi dati dimostrano, come si sottolinea anche nella ricerca Cesvot, che il volontariato ha una sua capacità di attrazione nei confronti di giovani e giovanissimi e può dunque rappresentare uno straordinario volano di formazione, crescita personale e partecipazione giovanile. Secondo gli autori dell’indagine, infatti, la diffusione del servizio civile e più recentemente dell’alternanza scuola-lavoro hanno contribuito a migliorare la capacità delle associazioni di intercettare l’attivismo dei giovani.
In particolare dal 2001 al 2015 nel nostro Paese sono stati avviati al servizio civile 349.066 giovani. Solo in Toscana dal 2011 al 2016 circa 47.000 giovani hanno partecipato ai bandi, il 60% è femmina e l’età media è 23 anni e mezzo. Dei partecipanti, sono stati avviati al servizio civile circa 9.700 giovani, con un’incidenza di 2 volontari ogni 100 ragazzi.
Per quanto riguarda invece l’alternanza scuola-lavoro, nell’anno scolastico 2015-2016 hanno partecipato a questa esperienza 652.641 giovani (su un totale di 1,4 milioni), di cui in Toscana il 53,4%. In particolare in Toscana l’anno scolastico 2015–2016 ha visto 342 scuole in alternanza (il 91,7%) per 2.140 progetti attivati. Sebbene il mondo delle imprese rimanga il primo soggetto attuatore di progetti di alternanza scuola-lavoro, crescono in modo costante e significativo i progetti promosso da enti non profit, che ad oggi si attestano intorno al 7%.
Conoscere le aspettative dei giovani e ciò che li muove a partecipare, saperli accogliere e valorizzare in attività e servizi è senz’altro la comune scommessa che hanno di fronte il mondo del volontariato e della scuola. I risultati della ricerca Cesvot confermano quanto emerge anche dalle rilevazioni Istat, ovvero che per i giovani al di sotto dei 34 anni la spinta amicale e relazionale è più forte della componente etica nella scelta di svolgere attività gratuita, ed è incentivata anche da elementi più esperienziali, come la capacità di acquisire nuove competenze professionali e consolidare le proprie capacità, la possibilità di trovare uno sbocco lavorativo o come fattore di empowerment.
Non solo. Per il 28,1% dei giovani che svolgono attività di volontariato l’impegno in una associazione “cambia il modo di vedere le cose”: secondo il 20,4% di essi, infatti, costituisce un propulsore allo sviluppo di una “maggiore coscienza civile”.
Ecco che allora, scrivono gli autori della ricerca nelle conclusioni al volume, “il volontariato non è soltanto ‘scuola di democrazia’, ‘palestra di vita’ – come si dice spesso, giustamente – ma è prima di tutto viatico essenziale per l’introduzione delle giovani generazioni nella vita attiva, inglobando e superando l’idea di ‘attività’ in senso economico, e aprendola a tutto lo spettro dell’esperienza sociale ed umana possibile”.
Secondo Andrea Salvini e Irene Psaroudakis, “forse più di ogni altra esperienza compiuta in ambiti aziendale, l’alternanza scuola-lavoro compiuta nel volontariato può valorizzare e moltiplicare all’ennesima potenza questa combinazione virtuosa di ‘essere nei processi’, ed ‘esserci per sé e per gli altri’, di senso di responsabilità verso sé e senso di responsabilità verso gli altri, di acquisizione di competenze specifiche (il know how che si può acquisire nei servizi) e di competenze trasversali (la relazionalità, prima di tutto, ma anche la capacità organizzativa, l’uso delle risorse, il problem solving ‘laterale’ e la cittadinanza sociale).
Tuttavia rispetto al rapporto tra volontariato e alternanza scuola-lavoro la ricerca evidenzia alcune importanti criticità: l’impreparazione delle scuole nella gestione dei progetti di alternanza scuola-lavoro in ambito non profit. Gli insegnanti spesso sono i primi a non conoscere il mondo del volontariato e del terzo settore e a non cogliere le opportunità di formazione che possono offrire agli studenti. Inoltre dai focus group realizzati sul territorio dai due ricercatori emerge la necessità che l’alternanza scuola-lavoro sia l’occasione per un apprendimento reciproco tra scuola e organizzazioni di volontariato, “è sempre più importante domandarsi che cosa la scuola può imparare dal volontariato e cosa il volontariato dalla scuola”.
Infine forte è “la necessità di responsabilizzare sia i tutor scolastici che quelli del terzo settore, per valorizzare appieno le esperienze degli studenti in alternanza e superare il pregiudizio per cui l’apprendimento deve necessariamente basarsi sulle esperienze che nascono dal sistema produttivo”.