Trattare di donne non è mai facile. Nonostante il melting-pot delle società contemporanee e gli amalgami favoriti dalle migrazioni moderne, le donne rimangono vittime passive di una visione fallocentrica della società, vettori primari di informazione, cultura ed identità all'interno del proprio tessuto sociale, ma pur sempre relegate al ruolo tradizionale affidato loro, di mogli e madri.
Se parlare di donne è difficile, parlare di donne migranti lo è ancora di più. Sopra le loro teste giace una silenziosa spada di Damocle pronta a recepire ogni loro movimento, ad accusare ogni proprio errore, a creare stereotipi difficili da eliminare. Le donne migranti affrontano nel loro quotidiano discriminazioni multiple per il loro essere straniere o appartenenti a gruppi minoritari, povere e donne, in una società patriarcale.
Si viene così a creare una capitalizzazione dell'identità, in cui la donna diviene il capro espiatorio di una violenza cieca e razzista. Il corpo femminile è a tutti gli effetti un campo di battaglia fisica, politica e sociale. Così come durante i conflitti i corpi delle donne sono utilizzati come armi di guerra, vittime di tensioni sociali, violenze e stupri, volti a penetrare nella trincea più intima del nemico, le violenze e discriminazioni subite dalle donne migranti sono atti estremi volti a ristabilire l'ordine all'interno delle società contemporanee, impregnate di crisi economiche e di valori tradizionali.
È attraverso una prospettiva postcoloniale, volta a spiegare la condizione storico-sociale di individui e gruppi soggetti a processi di transnazionalismo, che vengono pertanto criticati i concetti stessi di identità e cultura e la loro stessa de-strutturazione. Come definire un gruppo “etnico” se non attraverso una suddivisione dicotomica tra il noi e il loro? È ancora possibile parlare di culture nel senso tradizionale del termine? E quanto queste culture sono influenzate dalle dinamiche di genere al proprio interno e nella relazione con l'esterno?
Se parlare di donne migranti è difficile, lo è ancora di più parlare di donne rom (spesso cittadine italiane ma ugualmente considerate straniere) quale gruppo maggiormente discriminato sul territorio europeo e alle quali spesso viene associata una definizione di “cultura” specifica (vedasi la donna rom sporca, senza lavoro, ladra di bambini, ma allo stesso tempo girovaga, nomade e cartomante) che nella realtà non esiste.
Il principale ruolo del mondo dell'associazionismo è quello non soltanto di promuovere una piena inclusione ed interazione sociale tra le diverse realtà presenti sul territorio, ma soprattutto quello di combattere tali discriminazioni partendo dalle radici del conflitto, arrivando a combattere la violenza di genere per far sì che le donne migranti possano riuscire ad esprimersi liberamente e con i mezzi più consoni, apportando così un miglioramento della nostra società nel suo insieme.
Valeria Venturini è una delle curatrici del volume “Romantica cultura. Invisibilità ed esclusione del popolo rom”, pubblicato da Cesvot in collaborazione con il Centro mondialità e sviluppo reciproco di Livorno (“Briciole”, n. 32, 2012, pp. 213). Leggi la recensione al volume.
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