Come nasce la Comunità agricola di promozione sociale, quante persone coinvolge e quali sono gli obiettivi?
La Caps è nata formalmente tre anni fa a Riglione (Pisa), anche se il processo per la sua costituzione è stato avviato un anno prima. Tutto è nato dal problema riscontrato da un contadino, Riccardo Bandechi, proprietario di un’azienda agricola, che aveva la necessità e il desiderio di riavviare la propria attività dedicata alla coltivazione di ortaggi biologici. Nella sua stessa condizione altri piccoli imprenditori, incapaci di sostenere i costi della produzioni e che vedevano in una soluzione condivisa un possibile strumento per rilanciare le loro attività. Alla base di questa nuova esperienza la volontà di ridurre la distanza fra produttore e consumatore. In poche parole il nostro obiettivo era quello di prendere in mano personalmente la produzione del cibo senza aver nel profitto e nella ragione commerciale, l’unico motivo per svolgere il nostro lavoro. Come consumatori/produttori ci siamo impegnati per assistere l’attività agricola favorendo contestualmente la promozione del territorio, condividendo i rischi connessi all’attività agricola e capire in prima persona cosa un campo può dare o no. Avere un rapporto diretto con la terra, attraverso una partecipazione attiva, rende il nostro operato sicuramente particolare. Inizialmente furono coinvolte 70 persone fino ad arrivare, nel corso di questi anni, a registrare oltre 100 quote. Adesso, in questa fase di difficoltà registrata in tutto il settore, abbiamo impegnate 59 persone.
In che modo fate diventare pratica concreta i principi di giustizia sociale, sostenibilità ambientale e partecipazione?
Le nostre parole d’ordine sono “sostenibilità ambientale”, “Km 0” e “produzione biologica”. Per le nostre coltivazioni non utilizziamo prodotti chimici se non il minimo consentito dalla legge. Alla base di tutto c’è la partecipazione attiva. Ogni socio versa una quota annuale di 300 euro assicurando un minimo di 16 ore annuali di lavoro più una serie di attività collaterali. Abbiamo, in questo modo, cercato di dare al contadino che si occupa a tempo pieno dell’azienda, uno stipendio stabile e garantito anche nei mesi in cui, per ragioni climatiche, la produzione subisce cali importanti nella produzione. La comunità che si è creata con l’associazione, non si è mai tirata indietro facendosi carico di tutti i rischi legati alla gestione di un’azienda agricola.
Quando si parla di terra e di agricoltura si afferma, forse con troppa facilità, che si tratta di un settore ‘in crisi’. E’ davvero così? Come riuscite a sostenervi?
Non posso definirmi, anche dopo tre anni di esperienza, un esperto del settore ma mi sono reso conto che fare dell’agricoltura un’attività produttiva, soprattutto se la volontà è quella di rispettare determinati canoni di produzione, può essere molto complicato. E’ difficile competere infatti con la produzione estensiva di aziende i cui prodotti, qualitativamente inferiori ai nostri, sono messi in vendita nei supermercati a costi più bassi. Il costo dei nostri prodotti è senza dubbio un costo abbastanza elevato e questo è dovuto alle difficoltà ambientali registrate negli ultimi anni e alle spese di acquisto e manutenzione dei mezzi agricoli. Siamo i primi a renderci conto che se già è difficile avviare in un periodo come questo, un’attività agricola, lo è ancora di più mantenerla. Nel nostro caso le difficoltà aumentano perché il nostro scopo non è solo quello di vendere, ma anche di riuscire a trasmettere al consumatore tutto il lavoro che sta dietro a questi prodotti e che ne giustifica il prezzo più alto.
Cosa sarebbe necessario fare per aiutare ulteriormente la vostra attività e come potrebbero intervenire in questo senso le istituzioni?
Quello che noi cerchiamo di fare è creare un modello che sia replicabile. Volevamo puntare su un’attività che potesse essere presa a modello da altri gruppi e persone nel nostro territorio e non solo. La prima difficoltà che ci siamo trovati ad affrontare e che non abbiamo ancora risolto è di tipo normativo. Iniziative come la nostra, infatti, non hanno ancora riconosciuto un profilo giuridico chiaro. È previsto infatti che il contadino possa affittare e vendere ma tale possibilità non è prevista per i soci che possono lavorare insieme al contadino. E questo è solo uno dei tanti problemi. Evidentemente determinate leggi hanno lo scopo di contrastare il lavoro nero, molto diffuso nel settore, ma questo tipo di norme certo non aiuta esperienze come la nostra. Quello che noi ci auguriamo e che chiediamo è una normativa che riconosca legalmente e ufficialmente la nostra attività.
La Caps è nata formalmente tre anni fa a Riglione (Pisa), anche se il processo per la sua costituzione è stato avviato un anno prima. Tutto è nato dal problema riscontrato da un contadino, Riccardo Bandechi, proprietario di un’azienda agricola, che aveva la necessità e il desiderio di riavviare la propria attività dedicata alla coltivazione di ortaggi biologici. Nella sua stessa condizione altri piccoli imprenditori, incapaci di sostenere i costi della produzioni e che vedevano in una soluzione condivisa un possibile strumento per rilanciare le loro attività. Alla base di questa nuova esperienza la volontà di ridurre la distanza fra produttore e consumatore. In poche parole il nostro obiettivo era quello di prendere in mano personalmente la produzione del cibo senza aver nel profitto e nella ragione commerciale, l’unico motivo per svolgere il nostro lavoro. Come consumatori/produttori ci siamo impegnati per assistere l’attività agricola favorendo contestualmente la promozione del territorio, condividendo i rischi connessi all’attività agricola e capire in prima persona cosa un campo può dare o no. Avere un rapporto diretto con la terra, attraverso una partecipazione attiva, rende il nostro operato sicuramente particolare. Inizialmente furono coinvolte 70 persone fino ad arrivare, nel corso di questi anni, a registrare oltre 100 quote. Adesso, in questa fase di difficoltà registrata in tutto il settore, abbiamo impegnate 59 persone.
In che modo fate diventare pratica concreta i principi di giustizia sociale, sostenibilità ambientale e partecipazione?
Le nostre parole d’ordine sono “sostenibilità ambientale”, “Km 0” e “produzione biologica”. Per le nostre coltivazioni non utilizziamo prodotti chimici se non il minimo consentito dalla legge. Alla base di tutto c’è la partecipazione attiva. Ogni socio versa una quota annuale di 300 euro assicurando un minimo di 16 ore annuali di lavoro più una serie di attività collaterali. Abbiamo, in questo modo, cercato di dare al contadino che si occupa a tempo pieno dell’azienda, uno stipendio stabile e garantito anche nei mesi in cui, per ragioni climatiche, la produzione subisce cali importanti nella produzione. La comunità che si è creata con l’associazione, non si è mai tirata indietro facendosi carico di tutti i rischi legati alla gestione di un’azienda agricola.
Quando si parla di terra e di agricoltura si afferma, forse con troppa facilità, che si tratta di un settore ‘in crisi’. E’ davvero così? Come riuscite a sostenervi?
Non posso definirmi, anche dopo tre anni di esperienza, un esperto del settore ma mi sono reso conto che fare dell’agricoltura un’attività produttiva, soprattutto se la volontà è quella di rispettare determinati canoni di produzione, può essere molto complicato. E’ difficile competere infatti con la produzione estensiva di aziende i cui prodotti, qualitativamente inferiori ai nostri, sono messi in vendita nei supermercati a costi più bassi. Il costo dei nostri prodotti è senza dubbio un costo abbastanza elevato e questo è dovuto alle difficoltà ambientali registrate negli ultimi anni e alle spese di acquisto e manutenzione dei mezzi agricoli. Siamo i primi a renderci conto che se già è difficile avviare in un periodo come questo, un’attività agricola, lo è ancora di più mantenerla. Nel nostro caso le difficoltà aumentano perché il nostro scopo non è solo quello di vendere, ma anche di riuscire a trasmettere al consumatore tutto il lavoro che sta dietro a questi prodotti e che ne giustifica il prezzo più alto.
Cosa sarebbe necessario fare per aiutare ulteriormente la vostra attività e come potrebbero intervenire in questo senso le istituzioni?
Quello che noi cerchiamo di fare è creare un modello che sia replicabile. Volevamo puntare su un’attività che potesse essere presa a modello da altri gruppi e persone nel nostro territorio e non solo. La prima difficoltà che ci siamo trovati ad affrontare e che non abbiamo ancora risolto è di tipo normativo. Iniziative come la nostra, infatti, non hanno ancora riconosciuto un profilo giuridico chiaro. È previsto infatti che il contadino possa affittare e vendere ma tale possibilità non è prevista per i soci che possono lavorare insieme al contadino. E questo è solo uno dei tanti problemi. Evidentemente determinate leggi hanno lo scopo di contrastare il lavoro nero, molto diffuso nel settore, ma questo tipo di norme certo non aiuta esperienze come la nostra. Quello che noi ci auguriamo e che chiediamo è una normativa che riconosca legalmente e ufficialmente la nostra attività.