Mettere le proprie competenze professionali a servizio degli ultimi, della giustizia sociale e dell'ambiente: questo è, in sintesi, il tratto che accomuna le tante esperienze che vengono sintetizzate nell'espressione “professionisti senza frontiere”. Che sia una forma di volontariato, è fuor di dubbio; che sia una forma particolarmente moderna e in linea con le atmosfere solidaristiche del nostro tempo, è altrettanto evidente.
C'è gente, infatti, che oltre a mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie energie psico-fisiche per gli altri, offre una risorsa molto preziosa: il proprio capitale culturale e professionale. Si tratta, in effetti, di un capitale molto pregiato, che di solito viene accumulato gelosamente dalle persone e investito socialmente per aumentare le proprie (personali) chances di successo: medici, avvocati, chirurghi, architetti, psicologi, figure per cui la vocazione professionale coincide con una prestigiosa reputazione sociale ed economica; se poi non si tratta di successo in termini di prestigio e retribuzione, almeno esso può riguardare la sfera della gratificazione personale e, assai latamente, culturale e sociale (insegnanti, assistenti sociali…).
Ma qui la questione è diversa. Qui il capitale culturale e professionale accumulato o in via di accumulazione è, almeno in parte, re-distribuito socialmente; quello che Giddens chiama il “sapere esperto” non costituisce più un fattore di distinzione elitistico, ma diventa occasione di condivisione e crescita collettiva. Mi pare che questo sia il primo tratto – un po' rivoluzionario, per certi aspetti, considerando il mondo in cui viviamo – delle esperienze associative di cui parliamo qui; ma c'è un altro tratto, che vale la pena considerare.
Si tratta di un volontariato molto moderno, poiché, quasi per definizione, è un volontariato professionalizzato; ciò non significa che non sia gratuito; e nel contempo, ciò non significa che non possa costituire un'occasione di apprendistato per alcuni giovani professionisti; è un volontariato che si legittima in base alla specificità dell'intervento – che necessariamente ruota attorno alle specifiche competenze professionali – senza per questo perdere (auspicabilmente) il senso universalistico della solidarietà.
Per molti aspetti, questo senso acquista ancora più forza se veicolato da gente che ha fatto della propria identità professionale uno strumento di promozione dei più deboli e di sviluppo socio-economico; questa maggiore forza non è soltanto il risultato di una dinamica comunicativa, in cui il messaggio viene immediatamente legittimato dalla reputazione di chi lo trasmette. Qui c'è di più.
Il volontariato dei professionisti sembra rispondere pienamente alle esigenze dei volontari contemporanei, sempre più inclini a (ri)pensare il volontariato come una forma di espressione delle facoltà individuali, tuttavia orientate ad accrescere il benessere collettivo. Per questo si tratta di un volontariato molto moderno, e per questo sarà destinato, non senza le contraddizioni che accompagnano sempre i fenomeni emergenti, a diffondersi in modo sempre più rilevante.
Andrea Salvini, docente di Sociologia presso l'Università di Pisa e membro del Comitato scientifico di Cesvot.
C'è gente, infatti, che oltre a mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie energie psico-fisiche per gli altri, offre una risorsa molto preziosa: il proprio capitale culturale e professionale. Si tratta, in effetti, di un capitale molto pregiato, che di solito viene accumulato gelosamente dalle persone e investito socialmente per aumentare le proprie (personali) chances di successo: medici, avvocati, chirurghi, architetti, psicologi, figure per cui la vocazione professionale coincide con una prestigiosa reputazione sociale ed economica; se poi non si tratta di successo in termini di prestigio e retribuzione, almeno esso può riguardare la sfera della gratificazione personale e, assai latamente, culturale e sociale (insegnanti, assistenti sociali…).
Ma qui la questione è diversa. Qui il capitale culturale e professionale accumulato o in via di accumulazione è, almeno in parte, re-distribuito socialmente; quello che Giddens chiama il “sapere esperto” non costituisce più un fattore di distinzione elitistico, ma diventa occasione di condivisione e crescita collettiva. Mi pare che questo sia il primo tratto – un po' rivoluzionario, per certi aspetti, considerando il mondo in cui viviamo – delle esperienze associative di cui parliamo qui; ma c'è un altro tratto, che vale la pena considerare.
Si tratta di un volontariato molto moderno, poiché, quasi per definizione, è un volontariato professionalizzato; ciò non significa che non sia gratuito; e nel contempo, ciò non significa che non possa costituire un'occasione di apprendistato per alcuni giovani professionisti; è un volontariato che si legittima in base alla specificità dell'intervento – che necessariamente ruota attorno alle specifiche competenze professionali – senza per questo perdere (auspicabilmente) il senso universalistico della solidarietà.
Per molti aspetti, questo senso acquista ancora più forza se veicolato da gente che ha fatto della propria identità professionale uno strumento di promozione dei più deboli e di sviluppo socio-economico; questa maggiore forza non è soltanto il risultato di una dinamica comunicativa, in cui il messaggio viene immediatamente legittimato dalla reputazione di chi lo trasmette. Qui c'è di più.
Il volontariato dei professionisti sembra rispondere pienamente alle esigenze dei volontari contemporanei, sempre più inclini a (ri)pensare il volontariato come una forma di espressione delle facoltà individuali, tuttavia orientate ad accrescere il benessere collettivo. Per questo si tratta di un volontariato molto moderno, e per questo sarà destinato, non senza le contraddizioni che accompagnano sempre i fenomeni emergenti, a diffondersi in modo sempre più rilevante.
Andrea Salvini, docente di Sociologia presso l'Università di Pisa e membro del Comitato scientifico di Cesvot.